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Screening neonatale, le strategie per ridurre i falsi positivi

Screening neonatale, le strategie per ridurre i falsi positivi

Il prof. Giancarlo la Marca: “Abbiamo a disposizione diversi metodi per diminuire il tasso di errore, ma non ce n’è uno migliore in assoluto”

Firenze – L’obiettivo degli esperti di screening neonatale, è migliorare le prestazioni del programma per ridurre da una parte i costi sanitari dovuti a test e procedure non necessarie, e dall’altra per evitare ai genitori l’ansia e la sofferenza connessa al richiamo del neonato. Le strategie adottate per ottenere questi risultati sono diverse a seconda delle patologie da indagare: non c’è un metodo migliore in assoluto, ma tutti i metodi, essendo legati ai progressi tecnologici, migliorano progressivamente nel corso del tempo.

A guidarci in questa panoramica è il prof. Giancarlo la Marca, del Laboratorio di Screening Neonatale, Biochimica Clinica e Farmacologia dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Meyer di Firenze e presidente della SIMMESN (Società Italiana per lo studio delle Malattie Metaboliche Ereditarie e lo Screening Neonatale). Il suo recente studio, pubblicato sull’International Journal of Neonatal Screening, insieme alle colleghe Sabrina Malvagia, Giulia Forni e Daniela Ombrone, elenca quattro strategie: l’applicazione di nuovi biomarcatori, l’utilizzo dei test di secondo livello (second-tier test) e dei test molecolari, e l’implementazione di strumenti interpretativi post-analitici.

Un esempio di metodo migliorato in seguito all’introduzione di un nuovo biomarcatore è quello della tirosinemia di tipo 1, una gravissima malattia metabolica che colpisce il fegato e i reni. “L’esigenza nacque da un episodio negativo avvenuto nel 2005, quando un neonato malato non fu rilevato dal test di screening, e la tirosinemia è una condizione che può portare alla morte anche nei primi anni di vita per carcinoma epatico”, racconta la Marca. “Allora si utilizzava come biomarcatore l’aminoacido tirosina, che però, nella maggior parte dei casi di questa malattia (oltre l’80%), al momento del test di screening è normale. Perciò abbiamo studiato un altro marcatore più efficiente, il succinilacetone, che oggi viene utilizzato da noi al Meyer, e nel resto d’Italia e del mondo, come test di primo livello (alcuni laboratori internazionali lo usano solo come second-tier test)”.

La possibilità di eseguire il second-tier test, o test di conferma, è ciò che accomuna diverse altre patologie: la malattia delle urine a sciroppo d’acero, l’acidemia isovalerica, i difetti del metabolismo del propionato, l’omocistinuria e i difetti di metilazione, l’iperplasia surrenalica congenita e le immunodeficienze ADA-SCID e PNP-SCID. “Sono tutte malattie metaboliche, tranne l’iperplasia surrenalica congenita, che è un’endocrinopatia”, spiega il prof. la Marca. “Per questi difetti si utilizza un test di seconda istanza che ha una maggiore specificità: è insomma più capace, rispetto al primo test, di dirci se il soggetto che era risultato positivo è invece sano. In questi casi abbiamo solo il costo del test eseguito sulla stessa goccia di sangue prelevata poco dopo la nascita, che è molto minore rispetto a quelli associati al richiamo del bambino e della famiglia”.

Una strategia ancora diversa si utilizza per le malattie da accumulo lisosomiale (la mucopolisaccaridosi di tipo I e le malattie di Pompe, Fabry, Gaucher e Krabbe), in cui non si misura un biomarcatore accumulato a causa di un deficit di una proteina (enzima), ma come questa funziona. “Anche qui può servire un test di secondo livello perché ci sono delle possibili fonti di errore”, avverte la Marca. “Le proteine (al contrario di molti biomarcatori) sono molto sensibili alle variazioni di temperatura, e ad esempio per uno shock termico durante il trasporto al laboratorio si possono degradare e dare dei falsi positivi (mentre non è possibile che per questo motivo restituiscano dei falsi negativi). Inoltre, nella MPS I e nella malattia di Pompe può verificarsi una pseudodeficienza: nell’analisi effettuata su sangue intero la proteina è apparentemente deficitaria, ma nel cervello e negli organi funziona bene. Si tratta di soggetti sani, che non sviluppano sintomi, ma nei quali il risultato del test è ‘mascherato’ da positivo. Si procede perciò a un test di conferma, con la misurazione del substrato naturale che si accumula, proprio come avviene per le altre malattie metaboliche”.

Un altro aiuto alla diagnosi corretta viene dagli strumenti post-analitici: giganteschi database che conservano decine di migliaia di profili metabolici di soggetti malati e altrettanti di soggetti sani. Si tratta di un’elaborazione che fornisce un’indicazione probabilistica sulla base della statistica internazionale, utile per interpretare meglio i risultati dei test, seppure – raccomanda la Marca – può essere pericoloso affidarsi esclusivamente a questi strumenti.

L’ultimo approccio, infine, è quello dei test molecolari, una strategia utilizzata con successo per l’atrofia muscolare spinale (SMA) e per le immunodeficienze. “Oggi questi test sono un esempio di successo e innovazione, oltre che di apertura ad altre tecnologie. Altri test molecolari, inoltre, usati come test di secondo livello, sono complementari alle tecnologie più classiche di screening, ma probabilmente nei prossimi 10-15 anni tutti i test di screening neonatale saranno fatti in questo modo”, conclude il prof. la Marca. “I costi dei test molecolari sono estremamente più contenuti rispetto al passato, ma al momento si possono utilizzare a supporto di altre indagini solo se la manifestazione clinica di una malattia non è acuta, perché hanno dei tempi di processamento molto lunghi”.

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