Dal primo programma a Taiwan nel 2008 fino a quelli condotti in Veneto, Toscana e Umbria, gli esperti hanno imparato molto sul metodo migliore per individuare precocemente la malattia
Padova – Ormai, per gli esperti, non ci sono dubbi: nella mucopolisaccaridosi di tipo I (MPS I) una diagnosi precoce e un trattamento tempestivo migliorano la prognosi dei pazienti. Questa consapevolezza deriva dai risultati dei numerosi programmi e progetti pilota di screening neonatale che negli ultimi quindici anni sono stati implementati in tutto il mondo. Tutte queste esperienze, ora, sono state riassunte in uno studio pubblicato sulla rivista Critical Reviews in Clinical Laboratory Sciences da Alberto Burlina e Vincenza Gragnaniello, dell’Unità Operativa Complessa di Malattie Metaboliche Ereditarie dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova.
La MPS I è una grave malattia da accumulo lisosomiale causata dal deficit di un enzima chiamato alfa-L-iduronidasi. Nel corso degli anni sono state utilizzate diverse tecnologie per testare l’attività di questo enzima nei dried blood spot, i cartoncini sui quali si raccoglie una goccia di sangue prelevata dal tallone del neonato al momento dello screening: “Oggi i metodi impiegati più frequentemente sono la microfluidica digitale e la spettrometria di massa tandem”, spiegano gli autori. “Inoltre, nell’era attuale della medicina di precisione, l’aggiunta di un biomarcatore di secondo livello è essenziale. Ci sono diversi metodi efficaci per la quantificazione dei glicosaminoglicani (le molecole che, accumulandosi, provocano i sintomi della malattia), e questi test dovrebbero essere integrati immediatamente nei programmi di screening. Il test dei glicosaminoglicani può essere eseguito nello stesso laboratorio di screening o in altre strutture regionali: quest’ultimo approccio migliora notevolmente l’accuratezza e il valore predittivo, sebbene possa far aumentare il tempo di risposta per completare il processo”, sottolineano Burlina e Gragnaniello.
Ma le certezze di oggi derivano dalle esperienze – e soprattutto dagli errori – del passato. Vediamo quindi in che modo si è evoluto lo screening neonatale per la MPS I e in quali Paesi è stato introdotto.
TAIWAN
Il primo programma al mondo di screening neonatale per la MPS I è stato condotto a Taiwan fra l’ottobre 2008 e l’aprile 2013 su 35.285 neonati, con l’utilizzo di un test fluorimetrico, e ha riscontrato un’elevata incidenza della malattia (1:17.643). Il programma nazionale, attivo dal 2015, utilizza invece la spettrometria di massa tandem e ha identificato otto neonati positivi (di cui quattro veri positivi) su 294.196. Il numero e il tasso dei risultati falsi positivi (quattro, lo 0,0013%) erano molto bassi, soprattutto considerando che non sono stati utilizzati strumenti post-analitici o test di secondo livello. Ciò è stato attribuito all’omogeneità della popolazione di Taiwan e a un’incidenza molto bassa di pseudodeficit (la condizione di bambini falsi positivi che, pur non essendo affetti da MPS I, mostrano però un’attività dell’enzima alfa-L-iduronidasi al di sotto della norma).
STATI UNITI
Il Missouri, nel 2013, è diventato il primo Stato degli USA a sottoporre tutti i neonati a screening per la MPS I, utilizzando la microfluidica digitale. Da allora, programmi su larga scala basati sulla spettrometria di massa tandem sono stati istituiti in Illinois, New York, Georgia, Kentucky e North Carolina, dove vengono utilizzati anche strumenti post-interpretativi e test di secondo livello. L’incidenza della malattia, in base a quanto emerso dai programmi del Missouri e dell’Illinois, i più estesi negli Stati Uniti, è risultata bassa (rispettivamente 1:154.000 e 1:219.793). Recentemente due ricercatori, Washburn e Millington, hanno esaminato i programmi che negli Stati Uniti hanno adottato la microfluidica digitale per lo screening complessivo di 1,3 milioni di neonati e hanno descritto elevati tassi di positività (lo 0,17%) ma una bassa incidenza di casi confermati (1:163.000). Il tasso di falsi positivi era inferiore nei programmi che utilizzavano strumenti post-interpretativi o test di secondo livello.
In Kentucky, dove la misurazione dei glicosaminoglicani è stata utilizzata come test di secondo livello, il tasso di falsi positivi è sceso fino allo 0,0018%. Inoltre, nessuno dei programmi (compreso il Missouri, che l’ha introdotto dal 2013) ha mai riportato risultati falsi negativi. Le esperienze di questi primi programmi hanno portato, nel 2016, a includere la MPS I nel Recommended Uniform Screening Panel (RUSP), l’elenco federale di tutte le malattie genetiche raccomandate per lo screening neonatale. Attualmente, circa la metà degli Stati americani fa lo screening per le mucopolisaccaridosi.
EUROPA
In Europa, lo screening per le malattie da accumulo lisosomiale è ancora in una fase iniziale. La MPS I è raccomandata per l’inclusione nel panel olandese; di parere opposto il National Screening Committee del Regno Unito, che ha invece recentemente raccomandato di non inserire la malattia nel panel inglese. In Belgio, fra il 2015 e il 2016, è stato condotto uno studio pilota con l’utilizzo della cromatografia liquida – spettrometria di massa su circa 20.000 campioni resi anonimi, per testare l’efficacia dello screening nella MPS I e nelle malattie di Fabry e di Pompe, ed è stato osservato che gli intervalli di riferimento variano sensibilmente in base al sesso e all’età.
ITALIA
In Italia sono stati condotti tre studi di screening sulla MPS I. I primi due programmi pilota, uno in Umbria nel 2012, su 3.404 campioni mediante fluorimetria, e l’altro in Toscana e Umbria nel 2014, su 64.907 campioni mediante spettrometria di massa tandem, non hanno identificato alcun vero caso positivo. In Veneto, lo screening per le malattie da accumulo lisosomiale è previsto dal 2015 da una legge regionale. “Nel nostro laboratorio, fra il 2015 e il 2020, sono stati sottoposti a screening 160.011 neonati con la misurazione dell’attività dell’enzima alfa-L-iduronidasi e dal 2019 i glicosaminoglicani sono stati impiegati come test di secondo livello”, spiegano Burlina e Gragnaniello. “Sono stati identificati due pazienti con MPS I (incidenza 1:80.005): uno con sindrome di Hurler (il fenotipo più grave) e uno con sindrome di Hurler-Scheie (il fenotipo intermedio). Il primo è stato trattato con un trapianto di cellule staminali ematopoietiche e il secondo con terapia enzimatica sostitutiva, entrambi con buoni risultati”.
AMERICA LATINA
In America Latina, il Brasile e il Messico hanno avviato degli studi pilota. Ci sono però diversi limiti, fra i quali i vincoli di budget, la capacità limitata dei laboratori, la priorità dello screening per i disturbi con una maggiore incidenza e l’alto costo delle terapie per le mucopolisaccaridosi. Altre sfide possono essere rappresentate dalla scoperta di varianti genetiche di significato incerto e di pseudodeficit, se non viene eseguita la misurazione dei biomarcatori (l’analisi dei glicosaminoglicani). Attualmente sono stati sottoposti a screening 42.353 neonati, ma non è stato identificato alcun paziente con MPS I: saranno dunque necessari ulteriori studi per stabilire l’incidenza della MPS I in queste regioni.
“I tassi di incidenza dei programmi da noi presi in esame sono talvolta molto più elevati di quelli clinicamente stimati per la MPS I (1:100.000) e vanno da 1:17.643 nel primo studio a Taiwan fino a 1:219.793 in Illinois”, concludono Burlina e Gragnaniello. “Queste differenze potrebbero essere spiegate dalle differenze di popolazione, dai metodi e dai cut-off applicati, dai criteri di definizione del caso e dalla presenza di alcune varianti genetiche benigne, come c.99T>G e c.246C>G, inizialmente indicate come patologiche”.